Pietro Lo Monaco e il Catania. “Pianificazione e umiltà, la vera forza di una società”
(in esclusiva per ersuonline.it)
La tentazione di chiedergli dove finirà Maxi Lopez è forte, ma immagino già la risposta. Chi ha imparato a conoscere Pietro Lo Monaco, l’amministratore delegato del Catania, sa bene che non scoprirà mai le sue carte, a maggior ragione con un giornalista. La chiacchierata però ha un motivo preciso, meno intrinsecamente calcistico: fare impresa in Sicilia e non soccombere. Piuttosto edificare un progetto duraturo.
La sua stanza in Via Ferrante Aporti, sede della società rossazzurra, è spartana, un insospettabile profilo di sobrietà per un uomo che appartiene all’alto management. Non ci aspettavamo, ovviamente, poltrone in “pelle umana” di fantozziana memoria ma la semplicità dell’arredo e dei modi desta curiosità. “Pensi che raramente accendo il computer – esordisce Lo Monaco – È più un accessorio che altro”.
In quel frangente, all’interno della stanza c’è anche Carmelo Milazzo, il responsabile amministrativo del club, che annuisce e mi sussurra all’orecchio: “Riusciamo a comporre il budget annuale in mezz’ora, con carta e penna e senza supporti di alta tecnologia. E il direttore ha la capacità di azzeccarci sempre!”. Un assist perfetto per far scattare la mia prima domanda.
Il calcio non è una scienza esatta, specie se associato alla gestione economica. Esiste una “formula” per evitare i buchi neri?
“Nessuno ha la bacchetta magica, è solo un fatto di pianificazione e umiltà. Il mio criterio è il rigoroso rispetto del rapporto entrate/uscite. Facile a dirsi così, un po’ meno nei fatti. Per una società come il Catania è l’elisir di lunga vita, perché ti permette di crescere bene, gradualmente, ma di crescere. Tutto diventa facile se non si viene mai meno a questo principio, con notevole spirito di sacrificio quando occorre”.
Come nel caso del disgraziato 2 febbraio 2007? Sa di essere uno dei pochi dirigenti ad aver affrontato, nel calcio, uno stato di crisi così anomalo?
“Non ho dimenticato quel periodo, come potrei? Sembra una sciocchezza ma bisogna includere anche l’imponderabile. Ci siamo confrontati con una sequenza improvvisa di problemi, una reazione a catena che avrebbe stroncato chiunque. I costi sono lievitati per l’esigenza delle trasferte forzate, gli sponsor chiedevano la rescissione dei contratti, un cataclisma. In quel momento siamo stati bravi a non perdere la testa e, grazie al calcolo nel budget del possibile imprevisto, siamo riusciti a fronteggiare la situazione. Ciò avrebbe comportato anche un altro aspetto positivo: l’eventuale retrocessione non ci avrebbe ridimensionato perché avremmo avuto la forza economica per ripartire di slancio. Avere il bilancio in attivo ti permette soprattutto questo, perché devi sempre mettere in conto un’annata sfortunata”.
Chi la conosce cita una sua frase ricorrente, un modo colorito che usa spesso per autodefinirsi: “Ho una laurea in marciapiedologia”.
“Certo, non può essere diversamente (l’ad accenna un sorriso – ndr) è la storia di ogni uomo. Pensi un po’ ai miei trascorsi nel calcio: ho esordito a 16 anni nel Savoia, la squadra della mia città, ed ero considerato un enfant prodige. Poi però ho avuto un’onesta carriera maturata nei campi della serie C. Finita l’esperienza di calciatore ho intrapreso quella di allenatore, apprezzabile ma non di particolare rilievo, ho proseguito come dirigente sportivo seguendo il percorso graduale che mi ha portato a scoprire le caratteristiche reali di questo mondo, così come il rapporto coi calciatori. Trent’anni di calcio mi hanno insegnato qualcosa”.
Lei annette grande importanza alle risorse umane che condividono il progetto. In che modo sceglie i suoi uomini?
“Basandomi su ciò che sta alla base delle relazioni umane, il rispetto. Io guardo sempre l’uomo prima che il professionista, la sua educazione, l’inclinazione naturale e il modo con cui affronta il lavoro. In parole povere, guardo la persona nella sua essenza. Se ha notato, la porta della mia stanza è sempre aperta, perché i miei collaboratori devono poter vivere con me un rapporto fatto di scambio diretto, senza presunte barriere fisiche date dalla sacralità della stanza del capo. La mia porta è sempre aperta. Le rivelo un retroscena che riguarda Alessandro Failla, il nostro attuale responsabile del settore giovanile. Alla fine del primo anno di insediamento alla guida del Catania, dovevamo fare delle scelte e operare qualche taglio, doloroso ma inevitabile. In quel momento Failla aveva il ruolo di allenatore dei giovanissimi e sembrava destinato a non proseguire il rapporto con noi. Nel corso della stagione ho osservato il suo modo di lavorare, l’ho studiato senza che lui se ne accorgesse, seguivo gli allenamenti in incognito. Mi colpì il rispetto che aveva per le cose, la sua diligenza nel raccogliere i palloni alla fine della seduta con i ragazzi per riporli in magazzino. Proprio una questione di rispetto. Ricordo ancora la sua sorpresa quando, convocato in sede, gli comunicai la mia decisione di affidargli la responsabilità del settore giovanile”.
Tra ambizione e numeri, mi dice qual è il suo prossimo obiettivo?
“Che il Catania resti in A e diventi una società più forte. Il consolidamento passa soprattutto dalle possibilità che ci offrirà il Centro Sportivo, operativo dalla fine del mese. Strada facendo, sarei potuto andar via per occupare un ruolo in altre società ma ho intrapreso col Catania un lungo cammino. Quando sei l’artefice di una nascita, quel qualcosa diventa la tua creatura e te ne appropri affettivamente. Non potevo, e non volevo, fermarmi a metà strada. Voglio sapere come va a finire”.
di Luigi D’Angelo