“E’ arrivato Godot: credevo fosse piu’ bello”
Recensione di “Heligoland” dei Massive Attack – Febbraio 2010 – VIRGIN
In un meraviglioso libro del 1995, dal titolo “Canto alla Durata”, Peter Handke, ci spiega come l’attesa sia una prerogativa sostanziale per un sentimento amoroso. Se, dopo aver tanto aspettato, l’oggetto della nostra passione non ci soddisfa, lo respingiamo.
Lo sanno bene gli psicologi che hanno esaminato un curioso caso, in Inghilterra, alla fine della seconda guerra mondiale: molte donne dopo aver vissuto per anni solo di ricordi, di qualche lettera dal fronte e del desiderio di rivedere i loro mariti, al ritorno di questi, ritrovando uomini ormai cambiati e abbrutiti dalla guerra, o chiesero il divorzio o fuggirono di casa. Sette anni. Da tanto, mancano i Massive Attack dalla scena musicale contemporanea. E sette anni sono tanti.
Ti permettono di riascoltare a loop i loro precedenti album, capolavori come Protection o Mezzanine, di capire a fondo la poetica di 100th Window (in pratica, un album solista di Robert Del Naja) e di accettare come plausibile parentesi la colonna sonora di Danny the Dog, come fosse una lettera dal fronte in attesa del rientro e sogni a quale vetta giungerà il nuovo lavoro della band di Bristol. Aspetti, aspetti avidamente. Come i vagabondi di Beckett, Godot. E il tuo ottimismo cresce perchè, in giro si dice che nel gruppo rientra un mostro sacro del dub jazzato come Grant “Daddy G” Marshall. E finalmente nel febbraio del 2010, esce in tutti i negozi Heligoland. Ascolti e riascolti attentamente, ma non c’è che fare. Non sono più loro, niente a che vedere con il loro trip-hop del 2003 meno che mai del 1998 o del 1995. Cerco attenuanti, anche minime. Ascoltare i Massive Attack nel 2003, faceva figo. Radical chic, quanto meno. Oggi no. Oggi che lo sperimentalismo elettronico è praticato anche da mediocri sedicenni brufolosi, con programmini da pacchetti windows, il rischio di sottovalutare il lavoro del trio inglese è forte. Credo che di questo se ne sono accorti per prima loro, i Massive Attack, e dunque cercano di cambiare passo, spezzare i ritmi e congelare i riff. Ecco perchè Heligoland è soprattutto un disco spiazzante, disomogeneo e “suonato” rispetto ai precedenti lavori. Niente spigoli vivi, ma dossi, a volte aspri, ma dossi.
Calma, riflessione e intimismo sono le lenti con cui guardare questo lavoro. È un contratto di fascinazione la prima traccia: Pray for Rain, notturna e a lievi tinte jazz e tamburi minimali, con la voce distaccata di Tunde Adebimpe dei TV on the Radio ad accompagnarti verso un finale discreto e riposante e velato di nostalgia. Babel è il trionfo della voce di Martina Topley-Bird ammaliante e calda emerge dai battiti elettronici e dai bassi sincopati come un’isola florida in un mare di riverberi chitarrosi. Un po’ troppo ripetitiva Splitting the Atom, con alla voce Horace Andy e Grant Marshall, che torna così nel gruppo dopo dieci anni. Le atmosfere, malgrado le ridondanze, non sono affatto male. Tutto
puzza di soul iponotico con spruzzate reggae che portano l’ascoltatore più maturo a rifermenti
marca Protection.
La successiva Girl I Love You è un incedere di frequenze basse non sincrone, tamburi pulsanti e tastiere fredde a risaltare una atmosfera gotica. Solo la voce di Andy disvela l’oscurità con tratti esotici.
Psyche è una metafora di quiete e profondità dilaniata dai sintetizzatori e ricucita anche qui, dalla stupenda voce della Topley-Bird.
La malinconia e la desolazione ossessiva non si riesce ad estirpare neanche in Flat of the Blade con alla voce Guy Garvey (Elbow, I Am Kloot). Il tappeto sonoro però risulta troppo ripetitivo e ridondante. Stancante. Dopo un po’, si passa avanti con il tasto doppia freccia destro.
Una brezza di aria nuova si respira nella eterea Paradise Circus, raggiungendo alcuni dei momenti più delicati del disco, merito anche della immensa linea vocale di Hope Sandoval dei Mazzy Star.
Rush Minute ha tratti lounge e spinte autunnali grazie alla eterea voce di Del Naja che rimane sulla superficie di un mare di chitarre chiuse a loop.
Saturday Come Slow, macchiata dalla creatività di Damon Albarn (alla voce, in qualche tratto non ben inserita). La batteria, per nulla indiscreta, è il tappeto su cui si snodano una convincente chitarra acustica e tastiere delicate. Ma anche qui la monotonia è un virus che ammorba la canzone.
Atlais Air, chiude il disco con dub più che decenti e controcanti di elettronica ben armonizzata con un hammond vintage che impregna di memorie lontane tutta la canzone.
Alla fine resta qualche sbadiglio inatteso e, come già accennato, un senso evidente di malinconia.
Ma non riesci a capire se ciò è dovuto al climax del disco o ai tempi migliori del trio inglese.
Prendiamo questo disco come il rientro in campo di un fuori classe dopo un lungo stop. E quindi perdoniamo errori, passi falsi e passaggi mancati, in attesa della forma perfetta.
Bentornati, dunque, Massive Attack. Adesso a lavoro!
Salvo Messina