“Ciò che suona la pioggia” di Salvo Messina
Recensione di “Scratch My Back” di Peter Gabriel – Febbraio 2010 – EMI
Mentre scrivo questa recensione, Catania è bagnata da una pioggia intensa che flagella le strade fangose e bucate da circa 3 giorni. Fa freddo e c’è nebbia. “E’ questo il momento”, penso.
Accendo il mio vecchio amplificatore Denon e il mio lettore CD Sony, e la musica di “Scratch My Back” di Peter Gabriel, riempie la casa. La vibrazione è perfetta, in armonia col clima e le luci di un pomeriggio uggioso che dal grigio sta per volgere al nero. Questo disco è un album zuppo, grondante di memoria, sguardi interessati, malinconici e attenti di un Gabriel che fa sua la musica di ieri e di oggi. Un album di cover è in genere segno di risacca creativa. I grandi artisti, chi prima, chi dopo ci son passati tutti da questi momenti. Springsteen, Cash… Eppure qui è diverso, questo non è solo un disco di cover. È un inno ed un tributo ad un percorso musicale che parte negli anni ’60 e che continua fino ai giorni nostri.
È il tributo che il viandante fa al suo viaggio e a quello che ha ascoltato in questo viaggio. Un musicista non fa solo musica, ascolta anche musica. Questo disco è per Peter Gabriel un cofanetto di suoni che ha sentito e che reinterpreta nel suo lungo viatico sonico. Nel frattempo, nella mia casa, gocce di suoni intimisti battono al tempo di pianoforti inumiditi da pianti di memorie sixties, ed archi sottendono la linea di un orizzonte letargico e rilassante. Gli arpeggi scrutano lontano e, dentro, l’ascoltatore che viene scavato dai ricordi di musiche già sentite eppure, nuove. Niente batteria, niente elettricità fra corde e orecchie. Qui tutto è morbido, ingiallito, pregno: memoria e genio hanno trasfigurato pezzi epici della cultura rock moderna e contemporanea.
Decostruttivismo musicale e dinamiche da ensemble cameristica creano un universo già visto, ma pieno di nuove suggestioni. Voce, pianoforte, orchestra e un coro indiscreto, sono le sole potenzialità che Gabriel trasforma in cinetica di suoni. Così “My body is a cage” suona più chiassosa, struggente e sincopata dell’originale degli Arcade Fire. “Heroes” di Bowie diventa arresa e non più guerrigliera, finalmente se ne apprezza tutta la poetica del testo, “The boy in the bubble” di Simon si fa beffa dei ritmi sudafricani per cui era stata pensata per aggrapparsi e far rivivere la triste storia del testo. Ma sono i pezzi che non ti aspetti possa cantare l’ex Genesis a sorprenderti. Peter Gabriel ha voluto prestare orecchio ai nuovi suoni che arrivano dall’Inghilterra e dal Nord America. Quei suoni che ultimamente chiamiamo “indie” o “alternative”. Ed il lavoro di ricucitura fra la sua musica da camera e suoni pensati per lavori sperimentali, rock o elettronici, è incredibile. “Mirror ball” degli Elbow, ha costrutti sonori degni del “prog” made in Genesis. “Flume” di Bon Iver, è una scalata lirica teatrale e romantica per vedi amanti delle emozioni vocali forti. La rivisitazione “Street spirit
(Fade out)” dei Radiohead, è un pugno allo stomaco per chi ama il gruppo inglese. Dilaniante,
spiazzante in alcune parti oscena (sembra che non piaccia neanche a Tom Yorke…). Lì Gabriel si fa
cogliere in bilico sul baratro della stonatura (volutamente?), la voce rotta rovina su note dissonanti.
Così tutto si chiude. E rimani sospeso, in labilità tra genio e follia del musicista inglese, accecato da
tanto coraggio e complessità musicale.
Fuori continua a piovere, è tutto scuro, adesso. Come i suoni appena ammutoliti dal mio stereo.
È arrivata la notte, Peter. Verrà il momento della luce, ma non è adesso.
Salvo Messina